N.B. Questo è un esperimento di scrittura a quattro mani.
N.B. 2 Le quattro mani appartengono a metà duo scrittorio più la mente roboante di Enrico Gregori.
Osservava i peli che si
infilzavano nella schiuma.
Farsi la barba l’aveva
trovata sempre una perdita di tempo. Ma necessaria, perché alla lunga la pelle
gli si arrossava.
“Taddeo – disse a sorpresa – per quale cazzo di motivo i miei mi
chiamarono Taddeo! Tu dimmi se ti viene mente un Taddeo che abbia mai combinato
qualcosa”.
E diede una rabbiosa
sgrullata al rasoio. Schiuma e peli finirono contro lo specchio.
“Ti ricordi che devo
fare la doccia anch’io?”
La voce di Sveva gli
giunse insieme ai colpi serrati contro la porta. Sua moglie trovava sempre il
modo di rovinare i suoi pochi momenti di intimità.
In vent’anni di matrimonio non
era riuscito ad usare il bagno senza essere interrotto da uno dei bisogni
impellenti di Sveva. La doccia, la ceretta, l’assorbente da cambiare.
Rifiutarsi di eliminare
la chiave del gabinetto era l’ultima resistenza offerta da quel poco di ego che
gli era rimasto.
“Taddeo, insomma!
Taddeooo!”
Ecco, in momenti come
questo quel nome gli risultava ancora più inutile e fastidioso. Se si fosse
chiamato Rocco, per esempio, avrebbe potuto aprire la porta e mollarle una
capocciata da mandarla ko. Poi avrebbe superato il corpo inerme steso sul pavimento, avrebbe preso la tazza
del caffè, il pacchetto delle
sigarette e si sarebbe
goduto il silenzio appestando di fumo la camera da letto.
“E poi la barba –
riprese Taddeo – e cerimonie varie per andare a un matrimonio di due rompipalle
che non vediamo da 10 anni. E vai a capire perché non si sono dimenticati di noi!”.
“Io lo so il motivo”,
provò Sveva.
“Sentiamolo”.
“Perché ti chiami Taddeo”.
“Certo, invece Sveva è il più comune dei nomi. “
“Togliti quella schiuma
dalla faccia e smettila di dire fesserie. Paolo e Marina sono stati carini a
invitarci nonostante il modo in cui li hai trattati l’ultima volta.”
Lui obbedì, del resto
era quello che faceva sempre. Ma l’idea di assumersi la colpa di quanto era
successo tanti anni prima proprio non gli andava giù.
“Se la memoria non mi
inganna fu per difendere te che gliene dissi quattro, mio caro.”
Taddeo si passò sulle
guance alcune gocce di acqua di rose. I dopobarba alcolici non li tollerava.
“Sveva – esclamò
schiaffeggiandosi ritmicamente – che palle. Non è che mi salvasti la vita. Quel
coglione di Paolo si era messo in testa che io volessi scapricciarmi con
Marina. Ma ti pare? E chi la sopporta! Io al massimo sopporto te, perché...già, perché? Boh!”.
E riprese a
schiaffeggiarsi.
“Se non vuoi che il
prossimo schiaffone te lo spalmi io sulla faccia – lo minacciò Sveva
spalancando la porta - ti consiglio di uscire da questo bagno prima di adesso.
Dopodiché vedremo chi sopporta chi, stronzo!”
“A Marina diedi solo una
cameratesca pacca sul culo dopo che tu e quel cretino di Paolo ci prendeste in
giro per la nostra passione per i cartoni animati.”
Sveva lo spinse oltre
l’uscio.
“Ecco, tu questo sei, un
pupazzo. Sparisci!”
La porta si chiuse con
un tonfo. Taddeo vi appoggiò contro la faccia rasata di fresco.
“Tanto per la cronaca,
il culo di Marina era più sodo del tuo!”
Lo disse tanto per dire.
Di Marina non ricordava né il culo né altro. Tranne l’essere petulante e una
insoddisfazione cronica. Ammesso pure che Taddeo possa essersi complimentato
con lei per la struttura delle chiappe, a lei la cosa sarebbe risultata del
tutto indifferente.
“Però amore – provò
Taddeo con Sveva – di te apprezzo la mente. Un cervello è per sempre, come il
diamante. Il sedere lascia il tempo che trova”.
“Ma vaffanculo!”, arrivò
dal bagno come un siluro.
Sveva iniziò a
prepararsi, mentre Taddeo si bloccò quasi inebetito sedendosi del divano del
salotto. Accese una sigaretta.
Lei avvertì subito
l’odore di fumo, perché lo detestava tanto da chiedere spesso al
marito di fumare sul balcone.
“Be’? – esclamò – Hai ancora tracce di schiuma da
barba sulla faccia e sei in mutande. Pensi di venire al matrimonio in queste
condizioni?”
“Matrimonio”, ripeté Taddeo meccanicamente.
“Allora?”
“Allora…”
“Ma ti sei incantato,
rimbambito, ti senti male?”
“Male…ho contato male,
ecco!”. Taddeo si alzò e iniziò a percorrere il salotto come per misurarne la
superficie. “E uno…e due… e gira, e vai…Nascita, crescita, Cresima, Matrimonio… misurare finché tornino i conti…ma non tornano, non
tornano!”.
“Taddeo, datti pace!”
“Pace…pece. Pece nera,
tutto nero…paint it black, matrimonio, Paolo, Marina, Marina dal bel culo…”.
“Basta, basta col culo
di Marina…io scherzavo, io scherzavo, amore!”
“Come mi hai chiamato?”,
fece Taddeo come scosso da una scarica di corrente elettrica.
Sveva venne colta dal
panico. Il momento che aveva sempre temuto era arrivato. Gli occhi del marito
sembravano dotati di vita propria. Vagavano da un punto all’altro della stanza mentre
il corpo di Taddeo era scosso dal tremito. Sveva si mosse, sapeva quello che
ormai doveva fare, inesorabilmente.
Lui tentò di bloccarla,
lei non gli diede il tempo dì avvicinarsi. Lo psichiatra era stato chiaro:
prima o poi la crisi delle crisi, come l’aveva chiamata il medico, sarebbe
arrivata. E allora non ci sarebbe stato niente da fare.
Sveva scivolò
all’indietro, passo dopo passo, fino alla loro camera. Si chiuse a chiave e
compose il numero che conosceva a memoria da sempre. Poche parole da un capo
all’altro del filo. Poi sedette sul letto e si coprì la faccia con le mani.
Tornò a guardare la luce
quando la sirena dell’ambulanza coprì le grida forsennate di suo marito.
L.F. & E.G.
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti non espressamente firmati e/o sgradevoli verranno cancellati dalle proprietarie di questo blog.