lunedì 13 febbraio 2012

I racconti del lunedi': La panettiera di Arquata

Scrissi questo racconto su richiesta di un'amica di Facebook e con l'occasione scoprii l'esistenza di Arquata e della sua storia. Vorrei visitarla, un giorno...



Piove. Non forte. Le gocce restano sospese, come impigliate allo spessore dell’aria. Perché l’aria è più spessa in questi giorni d’autunno e di ricordi. La nonna è morta. Avrebbe voluto spegnersi quassù, a metà strada tra cielo e mare. Ma oggi non si muore a casa propria. La nonna si è spenta a Genova, in ospedale. Oggi avrebbe compiuto 110 anni. Era andata oltre gli acciacchi dell’età, oltre l’usura del corpo. La nonna era un’anima distillata dal tempo prima ancora di lasciare il suo corpo. Un involucro che adesso è qui, ad Arquata. Ma non qui, dove sono adesso, dove lei avrebbe voluto essere. Le gocce di pioggia mi accarezzano come un tendaggio mentre percorro i vialetti del piccolo cimitero di guerra britannico. Il foglio che ho in mano si accartoccia di umidità ma resiste, come ha resistito per anni nella tasca del grembiule della nonna. L’inchiostro, come la nonna, ha travalicato il tempo. Seppia contro la carta ingiallita. La scrittura è larga, quella di una bambina. Chissà che fatica queste righe per la mano già greve di artrite.

Si chiamava Henry e io non lo capivo quando parlava. Avevo diciassette anni quando arrivò insieme a tanti altri ragazzi come lui. Venne per combattere la nostra guerra. Era alto, biondo, elegante. Aveva solo pelucchi sul labbro e occhi dello stesso colore del fiume quando la pioggia non dà tregua. Si muoveva come si muovono i padroni e per questo, lui e i suoi compagni, abitarono nel palazzo dei padroni, palazzo Spinola. Ma non era un padrone, Henry. Non lo mandavano a prendere il pane alla fornace della Vaie, se era un padrone. Io lavoravo al panificio militare. Impastavo farina e acqua. Me ne stavo dietro, lontana dai maschi. Il paese era pieno di maschi in divisa che parlavano parole strane, che non capivamo. Ma gli occhi, quelli, parlano la lingua di tutti. Henry mi guardava. Mi guardava sempre…

Alzo gli occhi dal foglio. La pioggia e’ una corona di perle trasparenti sui capelli, sul cappotto, sulle semplici croci del cimitero di guerra. Terzo corridoio, quarta fila. La nonna è stata precisa. Mi fermo e fisso l’iscrizione: Henry O’Brien 1899 – 1918. No, nonna, non era un padrone il tuo Henry. Era irlandese, figlio di una terra aspra e povera come la nostra. E il colore dei suoi fiumi quando la pioggia non dà tregua era lo stesso dello Scrivia. Figli di povera gente, lui come te. E chissà quante cose in comune avreste scoperto se non ci fosse stata la barriera della lingua, tra voi.

Mi guardava sempre. E mi aspettava lungo la strada dalla fornace a casa. Non si avvicinava mai. Camminava sul lato opposto della strada e si fermava finché non entravo in casa. Neanche una parola, neanche una carezza. Ma il paese ha fatto presto a sparlare della panettiera e del soldato. Mio padre mi prese a cinghiate e mi impedì di tornare alla fornace. Poi Henry prese la spagnola…

Che ironia. Partire per la grande guerra e morire di influenza in uno sperduto paesino a metà tra cielo e mare. Mi abbasso sulla croce e la sfioro con una carezza. L’ultimo desiderio di mia nonna. La carezza della panettiera per il soldato.

Laura Costantini

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