È capitato a tutti di vedere una di quelle scene da film, di solito americano, dove il protagonista sosta davanti a una parete trapunta di stelle. Ogni stella un eroe morto per la causa. Che ci siano o meno i nomi, degli eroi, quel che colpisce è la quantità delle stelle. Che sono lucide e splendenti, ma mai e poi mai potranno raccontare cosa si cela dietro quel nome, dietro quella morte. Se oggi ci si fermasse un attimo a pensare al fenomeno del femminicidio, l'immagine della parete irta di stelle potrebbe essere attinente, soprattutto per l'impossibilità di un nome, di una foto, di una stella di rendere giustizia a ciò che quella persona, quella donna, è stata per tutti coloro che l'hanno amata. Succede allora che si richieda ai familiari di raccontare, ancora e ancora. Di rivivere la tragedia della perdita. Di testimoniare, giorno dopo giorno, che quel nome non può e non deve, mai, diventare un numero su un giornale o una stella su una parete. È il valore della memoria in quest'epoca di olocausto delle donne. Così accade che ti ritrovi in una casa dignitosa sulle colline di Napoli, ma potrebbe essere in qualsiasi altro luogo d'Italia, a raccogliere il grido di dolore e le lacrime di rabbia di una madre. Perché sua figlia, Fiorinda, è stata fatta a pezzi con l'accetta dall'uomo che non si rassegnava a perderla. Accadeva nel 2009 e il processo si trascina da allora. E succede che dopo tre perizie psichiatriche che avevano dichiarato quell'uomo capace di intendere e di volere, una quarta decida che no, che non conta se aveva posizionato un'ascia in sala da pranzo prima ancora di attirare Fiorinda nella trappola letale. Perché quell'uomo, che aveva già scontato anni di carcere per il tentato omicidio della ex moglie, ha agito d'impeto, ha perso il lume della ragione. E quindi per aver massacrato una donna di trentacinque anni, madre di un bimbo di otto, dovrà scontare solo 10 anni in un ospedale giudiziario. Succede che i genitori e le sorelle di Fiorinda accettino di farti entrare in casa, accettino di raccontare ancora, si rassegnino a offrire le lacrime in pasto a una telecamera. Ma dicano no quando chiedi loro qualche foto. Perché le foto raccontano attimi felici, raccontano una donna bella, giovane, curata, una donna che sapeva sorridere e abbracciare stretto il suo bambino. E fa troppo male, lo capisci, riguardarle e capire che mai più quel sorriso potrà essere immortalato. Quel no urla più della rabbia, della delusione. Quel no urla che qualcosa deve cambiare. Per questo è giusto parlarne. Per questo è giusto che siano usciti tanti libri sul femminicidio. Per questo è importante segnalare "Nessuna più" (Elliot edizioni): 40 autori raccontano e restituiscono un'identità a 38 donne assassinate. Storie di femminicidi, ispirate alla cronaca ma elevate a simboli di tutte le centinaia di vittime appuntate su quella parete. I proventi dell'antologia sono interamente devoluti al "Telefono rosa".
Laura Costantini
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