Mentre il mondo cade a pezzi, recita
una canzone. Mentre la politica tradisce ogni pur modesta aspettativa, c'è chi percepisce i
cambiamenti, li recepisce e si organizza di conseguenza, creandosi una piccola
oasi di serenità. Periferia di Pordenone. Strade pulite, palazzine
dignitose, un piccolo mini-market, di quelli che non se ne trovano quasi più. Troppa e troppo
potente la concorrenza dei centri commerciali, dei mega-discount. Ce ne sono
almeno tre in zona, a portata di passeggiata in auto. Marco in quel mini-market
c'è cresciuto. Gestione
familiare, il negozio era di suo padre, un piccolo alimentari d'altri tempi.
Poi le cose sono cambiate. Il mondo è cambiato. Siamo a Pordenone, ma le
voci che si rincorrono hanno poco a che spartire con il friuliano. I volti sono
scuri, le vesti colorate, i nomi raccontano storie di posti lontani, quasi
mitici. Agadez, Timbuctù, Tamanrasset. Con gli anni, una quindicina, a Pordenone si è creata una bella
comunità di tuareg. Sì, gli uomini del deserto, quelli con lo
sguardo impenetrabile tra le pieghe del tagelmust, il turbante tinto con
l'indaco. Quelli degli spazi enormi, della cerimonia del tè, del rifiuto
costante di aderire ai modelli di vita esportati dagli occidentali. I tuareg
tra loro si chiamano imoagh, uomini liberi. Eppure può capitare che la
loro ricchezza più grande, la libertà, siano costretti a rincorrerla fino a
una piccola, ordinata città del nord Italia e a trovarla tra le quattro mura di un
appartamento in periferia. Sono una quarantina i tuareg di Pordenone, una
comunità unita e forte. Abitano quasi tutti nella zona del
mini-market di Marco. Hanno cominciato a entrare, aggirarsi tra gli scaffali,
chiedere. Sempre con il sorriso e l'educazione che, racconta Marco, ormai
mancano ai clienti italiani. Cercavano riso, cereali, tè, pasta d'arachidi,
pesce di quello povero, carne. Ma che fosse halal, lecita ovvero macellata
secondo i dettami dell'Islam. Marco li ha ascoltati. Ha preso un taccuino e
cominciato a raccogliere ordinazioni: zenzero fresco, platani da friggere,
interi pancali di riso, di mais bianco, di farina di miglio. Ibrahim, Haddoe,
Muhammad ringraziavano, compravano, spargevano la voce. Le donne, nei loro
abiti variopinti, scendevano tra gli scaffali insieme ai bambini e al
necessario aggiungevano i piccoli piaceri. Bevande d'orzo frizzante per i
piccoli, creme e oli per i capelli crespi, buste di platani fritti, dolci o
salati, come snack. Oggi quello di Marco è l'unico mini-market etnico gestito da
italiani. E non risente della crisi. Anzi. La sicurezza di una clientela
numerosa e affezionata ha consentito di tenere bassi i prezzi anche per la
merce abituale. Gli affari vanno bene, gli immigrati si sentono bene accolti e
il rapporto è diventato amicale. Marco viene invitato alle loro cene e
alle loro cerimonie. Suo padre, che i tuareg chiamano papà, viene consultato
per interpretare le pastoie della burocrazia italica e per chiedere saggi
consigli. Ibrahim, Haddoe e gli altri sono grati. Ma anche Marco e la sua
famiglia lo sono. Figli del deserto e figli del Friuli si sono dati la mano e
hanno superato le difficoltà. Insieme.
Laura Costantini
Bellissimo post e belissimo esempio di vita.:)
RispondiElimina...anche il secondo bellissimo ha due L. Scusate la mia tastiera biricchina.:D
RispondiEliminamolto bello !
RispondiEliminaMarco è un vero commerciante, nel senso più alto e nobile del termine: ha adeguato il suo commercio alle esigenze/richieste della nuova potenziale clientela.
RispondiEliminaOvvero ciò che dovrebbe essere logico fare per chiunque abbia un'attività e voglia ricavarci di che vivere: adeguare l'attività alle richieste della clientela.
In realtà, in questo paese che di "mercato" si riempie la bocca poi presentando il conto alle casse del cittadino quando fallisce, succede quasi sempre il contrario: il mercato vuole addomesticare il cliente alle esigenze di cassa.