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Un
campanaro suonava a distesa e una donna con un gran cavolo sotto il braccio
osservava la scena. Checco pensò che poteva capire la sua curiosità. C’era una
bara, portata a braccia dagli amici, due anziani genitori che si sostenevano
l’un l’altra in uno scambio di sospiri asciutti. E c’era lui, i soliti jeans
cuciti addosso, la giacca con le toppe sui gomiti, le Clark inzuppate e quel
fagotto di ciccia tra le braccia: Lella. Checco capì che la donna con il cavolo
la pensava come tutti gli altri: uno con la sua faccia non poteva prendersi
cura di un neonato. In fondo era esattamente quello che gli aveva detto
Letizia, anche pochi minuti prima di morire.
Il
piccolo corteo funebre scivolò silenzioso lungo il sagrato incuneandosi sulla
stradina che portava al cimitero. Checco lo lasciò sfilare, accodandosi al
gruppetto neanche tanto sostanzioso dei compaesani. Del resto nessuno di loro
era riuscito a dimenticare il disprezzo che Letizia nutriva verso tutto ciò che
sapeva di legna bruciata, di terra, di stalle. Se n’era andata sbandierandolo,
quel disprezzo. E se era tornata era stato solo per sgravarsi di Lella. La
piccola gli si agitò tra le braccia, mentre, a passi sempre più lenti, cercava
di rimanere indietro. Se la sistemò meglio contro la spalla e ne assorbì il
sorriso complice. Checco era certo che Lella avesse percepito il colpo di
fortuna che le era toccato perdendo una madre come Letizia. Letizia che non gli
aveva mai nascosto la verità. A tenerli insieme era il suo modo di prendersi
cura di lei: lavorava per tutti e due, pagava l’affitto, cucinava, lavava,
stirava e, all’occorrenza, le scaldava il letto. Quando non era già occupato.
Un figlio non rientrava nei suoi piani. Glielo aveva chiarito nel momento
stesso in cui Checco, un sorriso ebete sulle labbra, aveva alzato gli occhi dal
rosa del test di gravidanza che lui stesso aveva comprato dopo aver notato che da
mesi la scorta di assorbenti restava intatta. Non era riuscito a farla
ragionare. Letizia aveva deciso che quel bambino era di troppo e che non era
disposta a dividere con nessuno la dedizione che Checco le doveva. Era troppo
tardi per abortire, ma di questo non si era preoccupata. Bastava tornare al
paesello, partorire e lasciare il fagotto ai nonni per poi tornare nel loro
seminterrato al Tuscolano.
La
pioggia battente affrettò la marcia del corteo verso il cimitero. Lo avevano
ormai distanziato ma nessuno se n’era accorto, raccolti sotto la volta degli
ombrelli. Era il suo momento. Attento a non scivolare sul selciato viscido, tagliò
per i vicoli verso la statale. Aveva studiato gli orari. Il prossimo Acotral
stava per passare. Raggiunse la pensilina deserta e scostò il lembo della
giacca con cui aveva riparato Lella. Lei gli sorrise ancora, sebbene avesse il
pannolino pieno e fossero trascorse più di due ore dall’ultima poppata. “Tu sei
come me”, le sussurrò strofinando il naso contro il suo. “Lotti, se vale la
pena lottare.” E lui aveva lottato, fino alla fine, fino alle estreme
conseguenze. Era successo a pochi metri dalla fermata. Era sera, Lella piangeva
affamata, ma Letizia non aveva intenzione di rinunciare all’aperitivo al bar.
Non aveva mai avuto intenzione di rinunciare a ciò che riteneva le fosse
dovuto.
“E
tu vieni con me”, aveva detto. “A Lella ci pensa mia madre, prima comincia
meglio è.”
Checco
l’aveva seguita, più per convincerla che per altro.
“Senti,
io ci ho pensato. Potrei chiedere un part-time. Tu torni a fare la commessa per
qualche ora, almeno fino a quando non ha un paio d’anni. Poi la portiamo al
nido.”
Lella
si era fermata sul ciglio della statale e si era girata a guardarlo.
“Un
giorno mi ringrazierai. Fammi accendere.”
Checco
aveva estratto l’accendino, gli occhi offuscati dalle lacrime. Lella gli
mancava già. Come poteva solo pensare di rinunciare a lei per sempre? Due
grossi fari si accesero alle spalle di Letizia. Un camion, uno dei tanti che
percorrevano veloci la statale.
“Mi
dispiace”, aveva mormorato prima di darle una spinta. Lo sfiato stridente dei
freni del camion non era stato diverso da quello dell’autobus che apriva le
porte per farlo salire. Si sistemò in fondo, Lella stretta tra le braccia e lo
sguardo rivolto indietro al rincorrersi della mezzeria e poi più su, fino alle
punte dei cipressi del cimitero, fino a Letizia. Senza un motivo gli fiorì in
mente il giro di do di “Buonanotte fiorellino” e cominciò a cantarla sottovoce,
cullando Lella. Era stato suonando quella canzone che aveva attirato lo sguardo
di Letizia. Era così che era cominciata la loro storia. Era da quelle parole
che era germogliato il seme di sua figlia. Il pensiero lo accompagnò fino alla
stazione Anagnina e poi giù, nel tunnel della metropolitana. “Torniamo a casa”,
disse alla piccola ormai addormentata sullo sferragliare del vagone. Mancava un
mese a Natale e alla fermata Giulio Agricola si affollavano gli ambulanti.
Qualcuno, sulle scale che guidavano all’esterno, suonava “Buonanotte
fiorellino”. Le note lo raggiunsero insieme all’odore freddo e umido della
pioggia che lo aspettava all’uscita della metro.
Lauraetlory
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